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Berlinale 2021 ⋅ Ombre nella foresta ⋅ Bilancio di un festival all’epoca della pandemia

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Con l’Orso d’Oro vinto da Bad Luck Banging or Loony Porn di Radu Jude a sancire l’ennesimo guizzo sorprendente di uno degli autori più solidi del cinema contemporaneo, si è conclusa la prima (e si spera ultima) edizione su piattaforma cui la pandemia globale ha costretto uno dei maggiori festival europei.

Carenti le produzioni americane, ma si potrebbe dire lo stesso dell’Italia e non solo, i lavori più interessanti sono arrivati dai confini orientali del vecchio continente o dall’Asia. Partendo da questi ultimi, il Gran Premio della Giuria ha gratificato un altro autore ormai più che affermato ma non ancora popolarissimo in occidente come il giapponese Ryusuke Hamaguchi per il suo Wheel of Fortune and Fantasy. Nei tre episodi in cui si articola il film, i personaggi si ritrovano sempre impigliati in una matassa sentimentale intricata e cercano pian piano di rinvenirne il bandolo. Nell’ultimo capitolo, l’agnizione che avviene tra due sconosciute che per qualche ora hanno creduto di essere state a scuola insieme non impedisce loro di ricorrere alla finzione e alla messa in scena per tentare di ricucire vecchie ferite. Così come nella regia e nell’uso dello zoom ottico, Hamaguchi è capace di finezze di trama degne del collega coreano Hong Sangsoo, il cui Introduction – anch’esso tutto giocato sul filo del caso e del sogno – ha ricevuto alla 71° Berlinale il Premio per la miglior sceneggiatura.

Accanto al vincitore rumeno, che mette al centro del suo film le frizioni sociali esacerbate dall’emergenza sanitaria, due dei principali riconoscimenti del Concorso sono andati ad altrettante opere ungheresi (cinematografie rappresentate in giuria da Adina Pintilie e Ildikó Enyedi) a partire dalle quali è facile individuare un percorso tra le varie sezioni in cui è ricorrente la raffigurazione e la potente metafora della foresta, interpretabile sia come il selvaggio che attrae ma fa ombra all’umano sia come la “selva oscura” che è inevitabile affrontare nei tempi bui della storia: tempi come i nostri, quindi, in cui anche le immagini concepite per le sale sono ridotte all’ombra di loro stesse su schermi portatili.

La Miglior Regia a Dénes Nagy premia il suo lavoro di messa in scena di un testo di Pál Závada, Natural Light. Giunto alla finzione con un film di guerra, che potrebbe ricordare l’analogo In the Fog (2012) del collega Sergei Loznitsa, Nagy l’ha interamente ambientato nel fango dei boschi tra Ungheria e Ucraina i cui abitanti, durante la seconda guerra mondiale, si sono trovati per anni alla mercé delle milizie magiare alleate a quelle naziste e della loro guerriglia con i partigiani sovietici. La foresta di relazioni resa tanto più fitta dall’intreccio tra il qui e ora con il passato, e con i fantasmi dell’immaginario e dell’ipotetico, è invece al centro di Forest. I see you everywhere, di Bince Fliegauf, riproposizione del dispositivo sperimentato nel suo precedente Forest (2003), che la giuria ha ricompensato con una delle novità di quest’edizione, l’Orso d’Argento per la migliore interpretazione non protagonista (che sostituisce la divisione maschile/femminile): una successione di brevi episodi autonomi, dialoghi filmati in interni casalinghi dove va in scena il dramma dell’esistenza tra gelosie, incomprensioni, lutti, menzogne, figli che si ribellano ai genitori, padri irresponsabili, parenti morti o moribondi, coppie sterili, personaggi che brancolano nella penombra di un’esistenza sempre in bilico tra la tenebra e la luce.

Con toni più marcatamente da commedia, Ich bin dein Mensch di Maria Schrader ha portato l’Orso per la migliore interpretazione alla sua protagonista Maren Eggert, archeologa tutta razionalità alle prese con l’incarico di testare un androide concepito per essere l’“uomo ideale”. Il Premio della Giuria a Herr Bachmann und seine Klasse di Maria Speth fa tornare ancora una volta il documentario nel palmares di Berlino, affiancato dal premio per il Miglior Contributo Artistico al montatore Yibrán Asuad per Una película de policías di Alonso Ruizpalacios che fa vestire a due attori i panni di due veri poliziotti in servizio nella giungla urbana di Città del Messico ma costretti a lasciare la divisa a causa di episodi di corruzione di cui sono stati vittima.

Il confronto tra la città e i suoi margini, tra umani e creature nei boschi, struttura anche il vincitore di Encounters, Nous di Alice Diop e si ritrova nel Premio Speciale della Giuria di questa sezione, Taste del vietnamita Lê Bảo, opera prima di grande impatto visivo. La Miglior Regia è andata ex-aequo a Denis Côté per Hygiène sociale sorta di pièce recitata per intero in mezzo a prati e boschi da personaggi che si tengono ben distanti l’un l’altro, come da protocolli sanitari – e a Ramon Zürcher e Silvan Zürcher per Das Mädchen und die Spinne, apprezzato anche dalla giuria Fipresci e che con l’animale totemico del ragno caratterizza l’inquieta protagonista in procinto di separarsi dalla sua coinquilina a cui la lega una relazione ambivalente. Menzione speciale per un altro poema visivo che ci immerge nella lava dei vulcani e tra le onde oceaniche per trasmetterci un messaggio d’amore per il pianeta: Rock Bottom Riser dell’artista Fern Silva. In sintonia con tali affreschi, anche District Terminal di Bardia Yadegari e Ehsan Mirhosseini ambientato in un’Iran prossimo futuro sull’orlo del collasso come la foresta dai cui bordi tracimano liquami e rifiuti di quell’enorme discarica che ben raffigura la minaccia incombente su tutti noi.

Numerosissimi i titoli di Forum che portano avanti il medesimo discorso, in varie forme. Da Esqui dell’argentino Manque La Banca, semi-documentario sullo sfruttamento del comprensorio sciistico di Bariloche premiato dalla giuria Fipresci, a Taming the garden di Salomé Jashi nel quale, al contrario che in Fitzcarraldo di Herzog dove una barca attraversava la foresta, vediamo alberi navigare sull’acqua, creature vegetali maestose che oggi si pretende viaggino come merci da una parte all’altra del mondo. Più poetico il lavoro che Fabrizio Ferraro opera in La veduta luminosa per fare della foresta nera un luogo dell’erranza esistenziale, sulle orme di Hölderlin.

Per quanto riguarda infine la sezione Panorama, non possiamo che segnalare A Ùltima Floresta di Luiz Bolognesi, co-sceneggiato e interpretato da Davi Kopenawa Yanomami, da anni portavoce dell’omonimo popolo indigeno che resiste nell’Amazzonia preda – nuovamente, dopo l’elezione di Bolsonaro – delle mire di cercatori d’oro che avvelenano le acque, cacciatori e disboscatori abusivi. Dal 9 al 20 giugno, i film delle varie sezioni e della retrospettiva prevista per quest’anno dovrebbero infine essere proposti nelle sale e arene estive di tutta la città di Berlino. Chissà che effetto farà poter rivedere alcune di queste immagini sotto le stelle.

© CultFrame 03/2021

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